Diario Politico©Raffaele Lauro,  Napoli

Masullo su “…quella montagna di libri”

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di Aldo Masullo

Libri dell’Istituto Studi Filosofici Napoli

Quella montagna di libri l’ho vista nascere. Tanto più tristezza e sdegno riempiono il mio animo nel sapere ch’essa è miserevolmente franata e quei libri come inutili sassi se ne staranno d’ora in poi accatastati in qualche rozzo capannone. Saranno anch’essi persi come i rifiuti nelle balle depositate senza termine nello squallore di campagne qua e là gravide di clandestine bombe ecologiche. L’ho vista nascere, quella montagna di libri, quando nella Napoli da pochi anni uscita dalla catastrofe materiale e morale della guerra, e pulsante di fervore culturale, d’impegno civile, d’iniziative economiche, frequentavo quasi ogni giorno, uscito dalle severe ma intense aule dell’università federiciana, talvolta in compagnia di un giovane collega o di un assiduo allievo, la libreria “internazionale”, la prima Feltrinelli, in via S.Tommaso d’Aquino.

Affamato di nuove letture, come molti eravamo dopo la lunga astinenza, cercavo novità filosofiche soprattutto tedesche e francesi e nuove edizioni di testi ormai classici ma esauriti. Spesso volumi esposti in bella vista oppure seminascosti ai piedi d’un bancone attiravano irresistibilmente la mia attenzione. Li sfogliavo golosamente. Poi mi facevo quattro conti in tasca e, forzando le mie magre risorse, interpellavo un commesso tanto gentile quanto esperto. Non so quante volte mi sentii garbatamente rispondere che la mia adocchiata preda era stata già prenotata da un noto avvocato, appassionato di filosofia politica, cliente assai pregiato per la quantità di opere soprattutto straniere che da lui venivano instancabilmente ordinate. Vidi così spesso sottratti al mio mal posto desiderio libri che andavano a riempire quella montagna, allora nascente, oggi franata.
Chi governa le società umane non dovrebbe mai dimenticare che, anche quando decide dello stato delle cose, tocca sempre la vita delle persone. La storia, come lapidariamente scrisse Tucidide, è fatta «dalle azioni e dai patimenti degli uomini». Di quella montagna di libri franata io mi dolgo, perché il suo nascere si era in qualche modo intrecciato con il tempo della mia ancor giovane maturità. Sui giornali ho visto le fotografie di Gerardo Marotta: in testa il vecchio cappello, indosso una strapazzata giacca di lavoro, il volto più stanco del solito, gli occhi che dietro gli spessi occhiali non cessano d’interrogare, egli come un naufrago tra i rottami si aggira tra cassette di libri pronte per essere portate via; oppure seduto stanco su una malferma poltrona, con una mano che stringe fascicoli e l’altra abbandonata come a segnare l’inutilità ormai d’ogni gesto, più amara del solito la piega delle labbra, l’illustre amico mi è apparso come l’immagine stessa drammatica della nostra città. Nel decennio che si va compiendo, Napoli non è stata fortunatamente colpita da catastrofici capricci della natura, ma gli uomini del potere politico, tra errori di vanità, miopia di progettazione, assenza di consapevolezza istituzionale, inerzia decisionale, beghe di fazioni, l’hanno fatta giungere in una condizione di massima debolezza alla pericolosa congiuntura della svolta epocale in corso.
L’aspetto più negativamente significativo di questo infelice finale di decennio, e il più appariscente sul palcoscenico della pubblica informazione, sta certamente nell’inarrestata smobilitazione dell’apparato dell’innovazione culturale a Napoli. A parte le università e i loro dolori per le pesanti riduzioni dei finanziamenti statali, i centri della produzione dei saperi sono stati l’un dopo l’altro lasciati perire o estromessi dalla città. Si tratta di centri di cultura di valore altissimo, unici al mondo. Essi sono stati mortificati e dispersi. Il grandioso centro di produzione della Rai non da ora sistematicamente umiliato da un’ostinata sottoutilizzazione, la storica libreria Treves relegata sotto i deserti portici del Plebiscito, la biblioteca dei Gerolamini saccheggiata dagli addetti, l’archivio musicale di Roberto De Simone costretto all’esilio, il Museo PAN sostanzialmente svuotato, il MADRE gettato allo sbaraglio di un incerto destino, infine adesso la mancata sistemazione delle centinaia di migliaia di volumi raccolti per l’Istituto italiano di studi filosofici dalla passione e dal continuo sacrificio finanziario di Gerardo Marotta, e lo stesso Istituto, per quanto richiamo di pensatori e scienziati di tutto il mondo, sempre meno sostenuto, quando non osteggiato: sembra proprio che tutti, governi nazionali, regionali, comunali, ma anche ceti borghesi benestanti, per lo più intenti a coltivare avaramente la propria grettezza, si diano da fare, magari non facendo quel che dovrebbero, il che è ancor peggio, per demolire quella speranza di ripresa che in una società civile soltanto dalla cultura attiva, cioè dalla potenza creativa del pensiero libero nelle sue varie forme, può essere sostenuta. Altro che festival e fori di vario genere, utili forse a divertire molti, ma soprattutto a distribuire mance a mediocri favoriti! Altro che manifestazioni sportive clamorose come le regate veliche all’americana, capaci di animare per qualche giorno la curiosità collettiva e per impinguare a spese pubbliche qualche privata organizzazione!
Tra l’altro, gli uomini di potere sembrano ignorare che il popolo napoletano, sì, il popolo più umile, per quanto oggi spesso corrotto dall’affarismo illegale, ha in sé una non comune acutezza critica, una sorta di storicamente affinato spirito illuministico. Nel 1799, caro al «giacobino» Marotta, il lazzarone Michele Marino detto «o’ pazzo», come ci ricorda Domenico Scafoglio, spiegava ai suoi consorti il significato di «cittadino» così: «col dare il nome di cittadino a tutti, i signori non hanno più l’eccellenza, e noi non siamo più lazzari, insomma siamo tutti uguali». Non è immaginabile una lezione più semplice e più efficace sulla potenza del linguaggio e sul suo nesso con la democrazia.
Il vero è che solo la cultura forte, seriamente esercitata, elabora gli autentici saperi della vita ed è perciò prossima alla vita del popolo. Far deperire quella cultura è lasciare la vita del popolo politicamente indifesa.
Una democrazia che caccia dalla città quei libri mi fa pensare alla immaginaria dittatura che, nel celebre romanzo Fahrenheit 451, invia dovunque, in tutte le case, i militi con i lanciafiamme a bruciare qualsiasi carta stampata. Cacciare via i libri in depositi quasi discariche, è come bruciarli“.

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