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Quota Rosa, in esclusiva il commento del Sen. Raffaele Lauro

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Sen. Raffaele Lauro (PdL)

Perché sono favorevole al disegno di legge sulle quote rosa nella costituzione degli organismi societari delle società quotate in Borsa ed a partecipazione statale

di Raffaele Lauro*

Nonostante il progressivo e maggiore coinvolgimento delle donne nei processi decisionali della politica, dell’amministrazione e dell’economia, posto a confronto con altre realtà a livello internazionale il quadro che emerge vede le donne italiane impegnate in una scalata al potere più faticosa e dunque più lenta rispetto a quella affrontata dalle cittadine di altri paesi, non soltanto europei. Il Global Gender Gap report, pubblicato nel 2010 dal World Economic Forum, ha collocato l’Italia al 54° posto, in coda alla maggioranza dei paesi membri dell’Unione, alla voce “political empowerment”, un indice sintetico che tiene conto sia del numero di donne parlamentari e membri dell’esecutivo, ma anche del fatto che il paese in questione sia o sia stato guidato da una donna capo di Stato o di governo. Un traguardo, quest’ultimo, che l’Italia sembra ancora ben lontana dal raggiungere.

Non va affatto meglio se si prende in considerazione la partecipazione e le opportunità femminili in ambito economico (economic participation and opportunity), sulle quali incidono tra l’altro il livello di occupazione, le differenze retributive, la presenza all’interno delle professioni e in ruoli chiave dell’economia. In questo caso il Belpaese scivola addirittura al 97° posto, preceduto da Honduras e seguito da Costa Rica. Nel complesso, il gap tra cittadini e cittadine italiani calcolato nel report, ci vede in 74° posizione, facendo addirittura registrare un peggioramento rispetto al 2008 (67° posizione) e al 2009 (72° posizione). Nel passaggio tra la XV e la XVI legislatura, il numero di donne italiane parlamentari ha raggiunto il suo massimo storico, con l’elezione del 21% di deputate e del 18% di senatrici. Le ultime tre legislature evidenziano una crescita costante, che tra il 2001 e il 2008 ha portato quasi ad un raddoppio della presenza di donne a Montecitorio. Percentuali più ridotte riguardano invece il Senato, dove storicamente la componente femminile si presenta più esigua (il Senato italiano, inoltre, è sempre stato presieduto da uomini).

Analizzando la composizione delle Commissioni parlamentari, si scopre che a fine 2010 alla Camera dei Deputati soltanto due Commissioni su 16 e al Senato addirittura soltanto una su 14 sono presiedute da donne. La loro presenza si concentra inoltre su specifici settori, tradizionalmente ritenuti più affini agli interessi femminili, come gli affari sociali, la cultura e l’istruzione, mentre resta tutt’oggi piuttosto rarefatta in materie come difesa, bilancio o finanze. Guardando poi alla composizione della conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, si nota che nel primo caso l’assemblea dei capigruppo include soltanto uomini, mentre nel secondo vi siede una sola donna. Gli organi del potere esecutivo dello Stato italiano riflettono abbastanza fedelmente le tendenze osservate per le assemblee legislative, tanto per quanto riguarda la quota di donne coinvolte che per la tipologia di incarichi da queste ricoperti. Il IV governo Berlusconi conta 5 “ministre” su un totale di 22 titolari in carica (in 3 casi si tratta di ministeri senza portafoglio); su 30 sottosegretari, le donne costituiscono meno di 1/4 del totale.

Confrontata con i numeri del potere strettamente politico, la presenza femminile ai vertici della Pubblica amministrazione appare certamente molto più consistente: degli oltre 6.000 dirigenti censiti nel 2009 le donne hanno infatti raggiunto il 39% del totale. Scendendo ai livelli di governo locale, la presenza di amministratrici si rivela più rarefatta: solo il 12% delle giunte provinciali e il 10,9 % delle comunali sono guidate da una donna. La presenza femminile nell’ordine giudiziario italiano è cresciuta con ritmo costante ad ogni concorso. A metà novembre 2010 le donne magistrato hanno toccato quota 4.071 unità, su un totale di 9.059. Però man mano che si procede verso i livelli più alti della carriera, la presenza femminile tende ad una rapidissima diminuzione. La classe femminile manageriale è ancora piuttosto esigua: le donne in ruoli di vertice all’interno delle imprese italiane di medie e grandi dimensioni rappresentano appena il 6,9% del totale dei ruoli di presidente, amministratore delegato, vicepresidente, direttore, direttore di funzione o di divisione (indagine Gea-Consulenti Associati). I ruoli più frequentemente ricoperti riguardano la prima linea del management aziendale (64%) e in misura minore i ruoli di vertice (36%). Per quanto riguarda i guadagni, si registra il permanere di differenze retributive dell’ordine del 12% (indagine Federmanager).

Secondo Unioncamere, nel periodo tra giugno 2008 e giugno 2009, le imprese al femminile sono aumentate dell’1,5%, più di 21mila attività, contro una complessiva diminuzione delle imprese in genere. Se si considera l’arco temporale che va dal 2005 al 2010, si può osservare come le imprese individuali femminili siano diminuite meno di quelle totali (-2,91% rispetto a -3,63%) Le imprese femminili stanno quindi resistendo meglio alla crisi.Non è da sottovalutare, inoltre, il fatto che tutti i dati concordano nell’indicare che le donne si rendono protagoniste di reati, anche contro la Pubblica Amministrazione, con frequenza nettamente minore rispetto agli uomini. Nel primo semestre del 2009 in Italia si sono registrati 1.372 reati contro la Pubblica Amministrazione per un totale di 5.379 persone denunciate, di cui il 70,5% uomini (pari a 3.793 persone) e il rimanente 29,5% donne (pari a 1.586 persone). Per tutte le tipologie di reato il numero di uomini denunciati è sempre superiore al numero delle donne denunciate. La quota di denunciati di sesso maschile risulta elevatissima per la frode nelle pubbliche forniture (il 94,7% sono uomini), per la  corruzione per un atto d’ufficio (91,3%), per l’istigazione alla corruzione (90,7%), per la concussione (90,3%), per la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (88,8%).

Un dato ancor più significativo è quello relativo al numero delle persone denunciate rapportato alla popolazione residente ed agli occupati. In entrambi i casi il tasso di individui denunciati per reati contro la Pubblica Amministrazione è significativamente più elevato per il sesso maschile. Nel primo semestre 2009 sono stati denunciati 53,4 uomini e 14,8 donne ogni 100.000 abitanti. Anche con riferimento agli occupati, si conferma più alto il numero dei denunciati uomini: 76,2 ogni 100.000 occupati contro 31,5 denunciate ogni 100.000 occupate. Considerando il periodo 2004/2008 si osserva che per quanto riguarda il sesso femminile, l’aumento delle persone denunciate è del +5,2%, mentre per quanto riguarda il sesso maschile l’aumento è più consistente (+8%). Le donne, dunque, si dimostrano più oneste.

In Italia, su 60 milioni di abitanti, il 51,5% sono donne. Le donne, inoltre, da diversi anni risultano la componente più istruita della cittadinanza Ma a guardare le posizioni dirigenziali (di ogni sorta) di questo Paese non si direbbe. In considerazione di questo insieme di fattori nel corso del 2010, in assenza di un adeguato dibattito inerente le disparità di genere, è stata avanzata la proposta di introdurre il 30% di “quote rosa” nella composizione dei cda e dei collegi sindacali delle società quotate in Borsa e a partecipazione statale, per un periodo di tempo equivalente a tre mandati. Questa proposta di legge potrebbe cambiare in profondità l’assetto dei vertici in aziende chiave per la vita economica del Paese, sia pubbliche sia private, dove oggi le donne rappresentano, secondo la Consob, poco più del 6% del totale. Un’iniziativa che potrebbe contribuire ad innescare anche un cambiamento culturale indispensabile per garantire maggiore eguaglianza sociale tra la componente maschile e quella femminile della cittadinanza. Il principio di uguaglianza di tutti i cittadini non vorrebbe che si creasse un obbligo basato su un “favoritismo” di genere, quale possono essere le quote rosa, ma la disuguaglianza della realtà rende quasi inevitabile l’adozione di un simile provvedimento. Per decenni, da quando si è riconosciuta pari dignità civile e politica alle donne con il diritto di voto, si è lasciato alla caparbietà femminile e alla “lungimiranza” maschile il compito di creare il naturale equilibrio per cui chi è più meritevole ricopre incarichi di maggiore responsabilità, a prescindere dal genere di appartenenza. Ma questo non è accaduto. L’introduzione di quote (siano rosa o giovani), in un paese come l’Italia, in cui il clientelismo spesso pesa più della meritocrazia, potrebbe garantire un indiscutibile vantaggio: scardinare un sistema che appare da troppo tempo ingessato. Se, infatti, si prende in esame, a titolo puramente esemplificativo, l’elenco pubblicato da Il Sole-24Ore riportante la classifica degli stipendi dei manager del 2009, si possono constatare due cose: su 191 manager solo 8 sono donne (il 4,1%). Solo considerando i primi 20 dirigenti (tutti uomini), il 90% occupa posizioni di rilievo da almeno dieci anni. Non solo. Accade frequentemente che i manager siano chiamati da una società ad un’altra per ricoprire ruoli apicali, anche trasferendosi dalla Pubblica Amministrazione alle aziende private e viceversa.

Nel nostro Paese vige, dunque, un sistema chiuso in cui per decenni le posizioni di comando sono occupate sostanzialmente dalle stesse persone, che si spostano orizzontalmente precludendo ogni forma di ricambio ai vertici. La transitorietà del provvedimento, infine, limiterebbe la controindicazione insita nell’imposizione di quote e cioè la nomina di persone non per merito, ma per condizione di nascita (donna piuttosto che uomo), lasciando alla norma il solo pregio di innescare il cambiamento. Sarà compito delle donne meritare sul campo la promozione “d’ufficio”, e far sì che ciò che questa legge determinerà per tre anni, diventi prassi consolidata e non eccezione.

*Senatore della Repubblica

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