Italia,  Piano di Sorrento

Incappucciati d’Italia infischiamocene dell’Antiterrorismo

Stampa

di Fabrizio d’Esposito

processioneCon la Domenica delle Palme, che rammemora l’ingresso festoso di Gesù a Gerusalemme, su un asinello, ieri è cominciata la Settimana Santa che culmina con la Pasqua. Sette giorni centrali nella fede cattolica e che in tutta Italia, soprattutto al Sud, saranno celebrati anche con le processioni degli incappucciati per rievocare la Passione e la Morte di Cristo.
È una tradizione che risale al Medioevo e che dopo aver resistito a guerre e pestilenze da un po’ di anni deve combattere con vari pregiudizi, talvolta ottusi, che addirittura possono derivare dallo Stato. La notizia l’ha diffusa La Stampa il 5 aprile scorso: in provincia di Imperia, in Liguria, a Rezzo e a Pieve di Teco, la Digos avrebbe intimato agli incappucciati di sfilare per strada senza ciò che li rende tali. Il cappuccio, appunto. La direttiva non sarebbe altro che l’applicazione della legge sull’antiterrorismo.
Il condizionale è doveroso perché il vescovo locale ha smentito il divieto “poliziesco” e lo stesso questore si è detto stupito. In ogni caso tutto origina da una legge varata nel 1975, durante gli anni di piombo, laddove all’articolo 5 si prescrive: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.

Fin qui, l’esposizione semplice dei fatti. La questione è che la norma del ’75 oggi incrocia un altro tipo di terrorismo, quello islamico, e ogni fobia legata allo scontro di civiltà che vorrebbe la destra fasciolepenista, per far rientrare in quel “senza giustificato motivo” finanche il burqa o il niqab. D’accordo, questo dibattito “culturale” ce lo porteremo appresso, irrisolto, per decenni. Ma le processioni che c’entrano? Davvero esiste, in Liguria, qualche prefetto o questore convinto che un incappucciato sia un potenziale terrorista?

Non solo. In questo caso abbiamo anche un’inversione dei ruoli: se il problema è il radicalismo dell’Isis perché prendersela con i cattolici? Potrei improvvisarmi salviniano e appellarmi alla difesa delle tradizioni. Ma da cattolico adulto per me il discorso è più intimo e complesso. Parto da un dato fondamentale: da quarant’anni il Venerdì Santo è un evento decisivo nella mia vita. Avevo dieci anni quando misi il mio primo cappuccio nero nella processione della notte, tra giovedì e venerdì, del mio paese in provincia di Napoli, Piano di Sorrento. Da allora, non ho mai saltato questo appuntamento, o da organizzatore, un tempo, prima di andare via, o da cerimoniere come oggi.

La mia arciconfraternita ha il titolo della Morte e Orazione ed è “sorella” peraltro di una delle due congreghe citate dalla Stampa, l’Arciconfraternita della Buona Morte e Orazione di Pieve di Teco. Entrambe ci richiamiamo alla “Primaria” di Roma che ha sede in via Giulia, nella chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte. Il sodalizio romano venne fondato nel 1538 e aveva come scopo originario quello di dare una misericordiosa sepoltura ai morti, per evitare che diventassero “cibo per animali”. Sulla storia delle confraternite o sulla struggente bellezza del Venerdì Santo potrei citare autori del rango di Adriano Prosperi, Ernesto de Martino, monsignor Vincenzo Paglia, Pietrangelo Buttafuoco, ma per rimanere sul tema del volto coperto, mi rifaccio alla “pedagogia del cappuccio” di monsignor Arturo Aiello, mio padre spirituale e vescovo di Teano: il cappuccio come “spazio sacro e segreto” per pregare oppure “esperimento di morte” senza essere riconosciuto da nessuno.

il-fatto-moitoEd è per questo che, giovedì notte, alla mia prima processione me lo abbasserò come sempre, in totale sintonia con il priore Michele Gargiulo. Digos o non Digos.

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