Piano di Sorrento

Fabrizio d’Esposito: “Il genio di Antonio Irolla e il nostro debito con lui”

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fabrizio-despositodi Fabrizio d’Esposito*

Ci vorrebbe un dizionario enciclopedico, diviso per argomenti, per spiegare chi è stato e cosa è stato Antonio Irolla per la mia generazione (e non solo quella, ovviamente). Quando domenica, come tutti, sono rimasto attonito di fronte alla notizia della sua morte, il primo pensiero di getto, istintivo, è stato il genio di Antonio. Ha ragione l’avvocato Esposito a citare “Amici Miei”. E’ lo stesso paragone che mi è sovvenuto domenica pomeriggio. Perché il genio si manifesta nella sua purezza essenziale solo nella goliardia, nella provocazione, nello scherzo. “Che cos’è il genio?” si chiedevano il conte Mascetti e i suoi amici. Risposta: “E’ fantasia, intuizione, colpo d’occhio, velocità d’esecuzione”.

Antonio Irolla
Antonio Irolla

Ecco cos’era innanzitutto Antonio. La galleria del racconto dei suoi aneddoti è sterminata e ha contribuito in maniera decisiva alla mitizzazione della sua figura (chi non conosceva Antonio Irolla in penisola sorrentina?) e ne riporto uno solo. Se non altro perché è il primo che ho ascoltato, quasi quarant’anni fa nella saletta giù al Monte, cioè la sede operativa dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione, i neri, dove poi ho condiviso con Antonio una lunga dialettica nel governo del sodalizio, dal 1988 a oggi. Dunque: Antonio raccontò di essersi presentato insieme a Gaetano “Carnevalone” a una funzione dei Testimoni di Geova, credo a Sorrento. I due si sedettero e vennero subiti notati dagli altri fedeli. “Chi siete?”. “Vorremmo diventare due Testimoni di Geova”. “Benissimo, siete i benvenuti”. “Però Geova ci deve esaudire una grazia che il nostro Dio cattolico non ci vuole dare”. “Dite pure, Geova è grande e può tutto”. “Voi siete sicuri che Geova può tutto?”. “Certamente, come fate a dubitarlo? Geova è grande”. “Va bene, allora io e il qui presente Gaetano il Carnevalone diventeremo Testimoni di Geova il giorno in cui usciremo di casa e vedremo tutti i democristiani morire uno per uno. Questa è la grazia che chiediamo a Geova”. Il resto dell’aneddoto non conta perché qui c’è l’acme della provocazione di Antonio, che oltre all’aspetto goliardico contlempa la sua inclinazione politica.

Mario Russo foto© ViC
Mario Russo foto© ViC

Antonirò” era un uomo della destra missina, contro il regime della Dc, e nel suo Club Napoli la Democrazia Cristiana si poteva citare solo a proposito del cestino dei rifiuti o del water: altra provocazione linguistica in un paese come Piano dove il conformismo moderato e democristiano era prevalente. Antonio era un anti-moderato – in un senso che per tutta una serie di motivi solo Mario Russo il “Biondo” può comprendere appieno – e questa sua radicalità permeava ogni discussione o attività del Club Napoli, una sorta di cenacolo dove la fede azzurra si mescolava con la goliardia, con il lavoro di fotografo di Antonio, con le polemiche sulle processioni o sul Miserere (non dimentichiamo che Antonio fu uno degli inventori della Rappresentazione storica del Mercoledì Santo, corteo che nacque dopo il rifiuto di bianchi e neri di ospitare i figuranti in costume) e con tante altre cose. Ma soprattutto, il Club Napoli, nelle ore notturne si trasfigurava in un gigantesco paravento contro la noia della vita di provincia, talvolta contro il male di vivere. Un porto dove approdare liberamente senza fissare appuntamenti. Anche in inverno, nel deserto della costiera, si partiva in auto per “pariare” in “rammaggi” (termine che significa giri senza meta e che riconduco al citato “Biondo” e a Peppe Pinella) e ne ricordo uno memorabile in cui Paoluccio Cacace buonanima entrò nel bar del Capo di Sorrento tuonando: “Una granita di limone con quattro cucchiaini”. E qui si torna alle zingarate e ai colpi di genio. In realtà Paoluccio Cacace era Paolace Cacuccio perché Antonio era un fulmine a invertire i finali di nome e cose: Rosace Cacario; bigliano alla metti; tribale lateruna; Rafista il Comunele; Fabrosito d’Espizio.

Ho avuto la fortuna di frequentare il Club Napoli negli anni di Maradona e dei due scudetti azzurri. In trasferta ci è capitato di lasciare Antonio a piedi a Pisa: eravamo in due macchine e ognuno era convinto che Antonio stesse nell’altra. Tornò dopo un viaggio infinito di oltre 24 ore. In queste ore di dolore ho frugato nella memoria alla ricerca di un’immagine di Antonio felice. L’ho trovata in un giorno storico per noi tifosi del Napoli. Il Nove Novembre dell’Ottantasei. Juventus – Napoli uno a tre. La stagione del primo scudetto. All’uscita dalla curva Maratona, ubriachi di felicità (io avevo ancora negli occhi la corsa di Giordano sotto da noi dopo il gol del vantaggio), Antonio saltava come un bimbo dagli occhi spiritati e pieni di gioia allo stesso tempo. Gridava, improvvisava comizi, un folletto che non credeva a quello che aveva appena vissuto. I più giovani di noi (all’epoca non esistevano i cellulari) erano anche in cerca di un telefono per avvisare i genitori. Torino era una bolgia e volevamo assicurare della nostra sopravvivenza. Antonio ci intimò: “Non si telefona, oggi siamo tutti impazziti di gioia e non sappiamo se si torna a casa”. Felicità allo stato puro, sul serio.

Ed è per questo che Antonio Irolla è stato un monumento dei miei vent’anni. Con lui muore un pezzo della mia giovinezza. In questo momento di congedo trovo perfetta la frase con cui era capace di lasciare i suoi interlocutori per ore da soli nel Club Napoli o persino sopra a casa sua. “Guagliù non ve muvit alloc, mo veng subito”. “Ragazzi non vi muovete da lì, torno subito”. E spariva per ore.

Un abbraccio lungo e forte a Mariarosa, Salvatore (compagno fraterno in quegli anni) e Luigi.

* Giornalista de “Il Fatto Quotidiano”

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